I mercati cinesi hanno perso terreno ma l’MSCI Index sui Paesi Emergenti ha perso il 18% da inizio anno e il 28% a un anno, mentre l’indice delle Commodities è sceso del 19,5% mediamente da inizio anno.
Quando passa un uragano di inattesa potenza gli effetti devastanti richiedono poi una ricostruzione che dura nel tempo con possibili danni collaterali insidiosi. La perturbazione cinese che si è abbattuta sui mercati internazionali lascia sui Mercati Emergenti e sulle Commodities ferite profonde da rimarginare.
I mercati emergenti nella settimana seguente a Ferragosto hanno registrato sui fondi obbligazionari dedicati una fuga di flussi di circa 2.5 miliardi di dollari, il più alto livello di variazione settimanale negativa dal Febbraio 2014. Ma si son visti ingenti deflussi anche sui fondi azionari, prevalentemente asiatici.
Ai timori sul rialzo dei tassi Usa, che avrebbe colto il comparto impreparato dato il deterioramento evidente dei fondamentali economici e del quadro politico, si è aggiunta la svalutazione cinese a complicare ulteriormente la situazione innescando una vera e propria tempesta valutaria.
Dopo il Kazakhstan e il Vietnam, forzati ad una svalutazione per non erodere riserve valutarie ulteriori, altri Paesi restano in bilico come l’Arabia Saudita, l’Argentina, la Nigeria e il Vietnam. E’ bastato vedere le quotazioni del greggio WTI al di sotto dei 40 dollari per un paio di giorni per scatenare un panico legato non solo alle valute ma anche alla tenuta dei bilanci dei Paesi maggiormente legati alle entrate petrolifere e quindi tra quelli ancora non nominati i membri fondatori dell’OPEC, perlopiù Paesi islamici dell’area del Golfo, e poi Venezuela, Ecuador, Libia, Algeria, Angola, Norvegia e Russia.
Più che comprensibile quindi la fuga di flussi di portafoglio da Paesi in difficoltà che oltretutto hanno visto un drastico mutamento nei flussi di investimento dall’estero, con una discesa dovuta ad un quadro politico non favorevole come Turchia, Brasile e Russia ma soprattutto per un mutamento ormai molto evidente delle politiche di delocalizzazione.
Così i Paesi Emergenti, dopo aver subito gli effetti del fallimento Lehman, ancora una volta subiscono gli effetti di lungo termine, da parte degli Usa, di intraprendere una nuova fase di guerra economica e mediatica con Russia e Cina, perché in vista delle prossime elezioni americane si può anche arrivare a posticipare le decisioni del FMI sul paniere valutario pur di tenere in scacco i due avversari “geopolitici” più temibili. Costringendo tutte le forze in campo a mettere mano al tesoretto delle riserve valutarie.
Giochi di potere globale a parte, occorre dire che nonostante il lancio della Banca dei BRICs e delle altre istituzioni multilaterali alternative a Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, i Paesi Emergenti non sono riuscite a capitalizzare le forze in campo e sono vittime di ritardi nelle riforme strutturali e un certo rilassamento su problematiche interne come corruzione, burocrazia ed evasione fiscale che impattano direttamente su livelli di PIL che han perso il loro smalto da un po’ di tempo.
Perso lo status di locomotive della crescita globale, insieme alla Cina, e relegati ai margini del G20 e dalla mancata concessione di maggiori poteri di voto da parte del FMI, l’asset allocation sul comparto emergente perde consenso anche sul alto dei ritorni dell’export delle Commodities, ormai in caduta libera. Sulla fine del SuperCiclo già avevamo delle certezze suffragate anche dal rallentamento della crescita globale ma la contrazione evidente degli acquisti cinesi, che pesano mediamente per una percentuale a ridosso del 30% sull’indice, hanno innescato una serie di vendite speculative. Perché evidentemente la speculazione sulle debolezze dei Mercati Emergenti e delle Commodities ha trovato sponde facili per ritorni immediati a due cifre in un momento di totale smarrimento anche e soprattutto sulle politiche di produzione dei metalli preziosi come di valutazione delle colture sui beni agricoli, e quindi sui volumi finali che concretamente vengono scambiati su questi comparti.
Come si comprende non basterà una ripresa dei corsi petroliferi stabilmente sopra gli 80 dollari, che peraltro non si paleserà che alla fine del 2016 o addirittura più probabilmente nel 2017, ma solo una svolta decisa sul PIL globale potrà ridare smalto a questi assets più rischiosi. Dobbiamo così rassegnarci su percentuali di portafoglio molto risicate, e quindi inferiori al 5%, prima di vedere rientrare un ipervenduto che poggia su un fenomeno strutturale di medio lungo termine e soprattutto vedere un riequilibrio di quelle variabili geopolitiche che complicano qualsiasi idea di ripresa dei mercati di nuova frontiera africani e mediorientali, soprattutto per l’accesso a nuovi mercati azionari.