Di fronte a movimenti bruschi e inattesi dei mercati finanziari è quasi automatico cercare paragoni e raffronti con le crisi passate. E il rimando agli effetti diffusi e globalizzati della crisi del 1929 ben si adattano alla sorpresa di una risposta tardiva e inadeguata del Governo cinese, già vessato a livello sociale dai gravi incidenti industriali di Tianjin e di Tientsin.
Tutto è cominciato a giugno con il rifiuto all’entrata del listino cinese A shares nell’indice MSCI Emerging Markets; poi, dopo la correzione di luglio e quella più pesante dei mercati cinesi in agosto, ecco il ricorso sorprendente ad un cambio di regime valutario e conseguente svalutazione, il tutto dopo aver visto sfumare anche l’appuntamento con il FMI, Fondo Monetario Internazionale.
Il quale FMI per la prima volta nella sua storia ha posticipato il verdetto quinquennale sull’ammissibilità di nuove valute al paniere di riserva internazionale di un anno, smontando ancora una volta le ambizioni geopolitiche cinesi, pericolose per il dominio del dollaro Usa.
Gli investitori si sono così trovati a Ferragosto con una serie di variabili impazzite: l’indeterminatezza sul rialzo dei tassi Usa, la crisi cinese, il crollo del petrolio sotto quota 40 del WTI, le elezioni anticipate greche e la crisi valutaria dei Paesi emergenti caratterizzata da svalutazioni a raffica delle relative valute. Troppe incognite tutte insieme per poter evitare un venerdì e un lunedì nero epocali.
Intanto sfatiamo certi eccessi che colpevolizzano la Cina e addirittura vedono una crescita al 4% (!?!). Non è così, è vero che la locomotiva globale, soprattutto per Commodities e Paesi Emergenti, sta rallentando ma è anche vero che se la crescita deluderà sarà per un 6-6.5% per il prossimo biennio, complice una modifica del modello economico in atto non facile da gestire politicamente. E soprattutto, quando 90 milioni di piccoli e grandi investitori prendono una sbornia da “sake’ azionario”, una correzione salutare servirà senz’altro come palestra di accesso a un mercato forse ancora immaturo su controlli e monitoraggi di vigilanza.
Occorre dire che Europa e Giappone, nonché la stessa Cina si sono crogiolati nell’illusione che il quantitative easing e quindi l’allentamento monetario fosse la soluzione. Ma se ciò è molto vero per sistemi economici flessibili sul lato fiscale e occupazionale come USA e Gran Bretagna, resta indubbio che con sistemi politici macchinosi e burocratici che non riescono a tagliare la spesa pubblica e l’ingente debito (e neanche a finalizzare un’ottimizzazione fiscale al servizio di una spinta all’occupazione), il ritorno sul PIL è inevitabilmente deludente.
In altre parole, quanto accaduto è una lezione fondamentale per ripensare alle dinamiche di crescita globale con più obiettività e responsabilità soprattutto da parte dei governi che per primi hanno alimentato una variabile politica che spesso ha perso di obiettività.
I cinesi hanno tempi lunghi e sono meno smarriti di quanto i fatti possano far apparire e non solo perché comunque le risorse valutarie sono e restano ingenti (e non vedremo un altro 1929) ma solo un riequilibrio di eccessi politico-finanziari che, insieme alle incognite geopolitiche, l’Europa ha pagato più degli altri nonostante rimanga il mercato più promettente per gli investimenti globali.