Intervista per : 5 Minuti con Aberdeen , secondo trimestre a cura di Martina Mazzotti
Per gli Stati Unti è l’anno della “monetary policy normalization” anche se l’economia reale ha registrato nei primi mesi del 2015 un rallentamento. Come reagirà la Fed riguardo all’atteso rialzo dei tassi?
Dagli ultimi discorsi di Obama è chiara una certa preoccupazione, che richiama il discorso fatto anni fa sull’austerity europea. Il fatto di voler intervenire direttamente a fianco dell’Eurozona e del Fondo Monetario Internazionale per trovare una soluzione all’annosa questione greca, lascia intendere il fatto che la crescita globale non può prescindere da quella Europa e che gli Stati Uniti, reduci nell’ultimo trimestre da dati molto altalenanti sull’occupazione, non può far a meno di un coinvolgimento nelle questioni europee. La crescita a singhiozzo dell’economia americana è a mio avviso retaggio tra l’altroanche di un problema sociale enorme, che si è ulteriormente esacerbato negli ultimi tempi. Il moltiplicarsi degli scontri tra diverse etnie è un dato che sempre più balza all’occhio e che non aiuta stringere la forbice della ricchezza fra le classi sociali. Questo rappresenta un enorme costo per il sistema USA e una mancanza di opportunità per i giovani a livello occupazionale. Sebbene ci sia stata una reazione molto forte dell’economia americana agli interventi accomodanti del governo e della Fed degli ultimi anni, si è però completamente dimenticata una parte del Paese. La rabbia che abbiamo visto sfogarsi in molte situazioni si traduce in costi sociali che indicano come una fetta degli Stati Uniti non stia producendo come potrebbe. Alla luce di questi dati incerti, il rialzo dei tassi americani, complice anche la questione greca, sarà verosimilmente spostato da parte della Yellen verso la fine dell’anno in corso o addirittura come piu’ probabile nel 2016 a causa degli alti livelli di volatilita’ causati dalla frenata asiatica. Se già le parole della Yellen andavano nel senso di un rialzo estremamente graduale per non scioccare il mercato, è possibile sicuramente un ulteriore posticipo prendendo a spunto proprio dal superamento delle tensioni valutarie che la svalutazione cinese, sollecitata dall’FMI, ha causato.
A proposito di crescita e di global risk, anche la Borsa cinese ultimamente ha dato segnali allarmanti, riuscirà questa grande economia a trovare la sua “normalization”?
Quello a cui stiamo assistendo sembra un cortocircuito all’interno del perfetto sistema di pianificazione cinese. La Cina, soprattutto col nuovo direttorio, stava traghettando il Paese verso un modello economico proiettato alla domanda interna e ai consumi. Unitamente a questo sforzo di cambiamento del modello produttivo, le autorità monetarie cinesi hanno anche lavorato sull’internazionalizzazione del renminbi su cui Shanghai aveva accelerato per arrivare a una totale apertura, affrontando anche tematiche estremamente urgenti come quella dello shadow banking e dei non-performing loans delle banche. Tutte queste variabili insieme hanno visto il Governo occupato su più fronti con un mercato alle stelle; una discesa troppo repentina ha fatto sì che con l’inizio del quantitative easing messo in moto dalla People’s Bank of China , il Premier si sia trovato in difetto di comunicazione ai mercati e nella condizione di accelerare e rincorrere gli stessi ; invece di essere davanti alla curva, le autorità di Pechino si sono trovate dietro alla curva, a inseguire un mercato sfuggito di mano. Nulla toglie alla capacità del governo cinese, dato anche l’ingente numero di riserve valutarie di intervento, di arginare la situazione e mantenere questo nuovo modello economico all’interno di dinamiche di mercato che siano soddisfacenti e che, soprattutto, vadano a inserirsi nel processo di affrancamento e di liberalizzazione della divisa. Certo e’ che con l’Europa che non cresce come ci si aspettava questa frenata cinese si e’ scaricata ancora sui Mercati Emergenti e le Commodities , gia’ messi sotto pressione dalle aspettative sulla Fed Senza mettere in dubbio il trend dei consumi interni e di8 dati macro che chiaramente sino ad Ottobre non miglioreranno, questo sta ponendo degli interrogativi riguardo alla tenuta dei mercati finanziari proprio nel momento in cui si voleva arrivare all’apertura completa degli stessi. Quello che è successo ad Agosto ha cambiato le priorità del governo e rallentato il processo di internazionalizzazione del renminbi preso atto anche lo “storico” rinvio della decisione del FMI sul paniere delle valute DSP di un anno.
In questo contesto di grande incertezza quali sono allora i Paesi a cui guardare con maggiore interesse?
Fino a qualche anno fa il principale driver della crescita sono stati i Paesi emergenti, gli anni ruggenti dei BRICS, ma adesso anche grazie a una nuova idea di multilateralismo che si sta creando, il mondo ambisce ad avere nuove opportunità di investimento e di scambi commerciali che non seguono più le rotte tradizionali… Vedi ad esempio il progetto della Via della seta cinese che tenderebbe a rafforzare il rapporto con Asia ed Europa. E la Russia che si rivolge sempre di più verso i mercati asiatici mentre il Medio Oriente deve affrontare con difficoltà ,portata a estreme conseguenze , la questione Isis, nonche’ il formarsi di nuove alleanze all’interno del mondo islamico, resesi necessarie nel momento in cui gli americani hanno abbandonato di fatto il Medio Oriente nella loro strategia di politica estera. In generale, i mercati emergenti stanno vivendo un momento difficile. I BRICS, in termini di Pil, rappresentano ancora un grosso traino globale, ma non più in termini di crescita economica. Il punto è che la crescita del Pil e il modello economico di molte economie emergenti non ha saputo rinnovarsi di fronte al cambiamento delle dinamiche internazionali, finendo per tornare un po’ alla periferia del G20, mentre prima ne avevano conquistato il cuore. Certamente, il fatto che il Fondo Monetario non ne abbia riconosciuto il peso, che peraltro era anche stato comprovato dal Consiglio del Fondo Monetario, e abbia in qualche modo spinto la Cina a costituire la Banca dei BRICS, la Banca asiatica delle infrastrutture (AIIB), è stato il risultato di una miopia nel non capire che, nel momento in cui la Cina è diventato il più importante finanziatore dell’Africa, ancora più della Banca mondiale, era inevitabile che desse vita a organismi alternativi dedicati al multilateralismo, rispetto a quelli a maggioranza di voto anglosassone. Inoltre negli ultimi tempi i Paesi emergenti sono stati schiacciati dalla prospettiva del rialzo dei tassi americani che certamente li penalizzerà. Fino ad oggi avevano vissuto grazie a flussi di investimento diretto dall’estero in grande crescita, ma essendo cambiate non solo le logiche di delocalizzazione ma anche le logiche dei commerci globali, con una frenata nel primo semestre del 2015 dei flussi commerciali globali, si sono trovati in una situazione di difficoltà. Certo poi non aiuta l’effetto domino delle svalutazioni valutarie innescato dalla mossa cinese unitamente alle difficolta’ politiche: come gli scandali in Brasile, con il Presidente Dilma Rousseff al minimo storico dei consensi al 9%, o la deriva di una Turchia fallimentare di fronte al modello di rinascimento islamico di Erdogan: vedere le bandiere cinesi bruciate in Turchia negli scorsi mesi, fa capire come certe situazioni dal punto di vista dei mercati vengono viste con grande preoccupazione e fuga di capitali degli investitori esteri. Le eccezioni restano pochissime , una di queste è il Messico, che è l’unico Paese che in questo momento sembra in qualche maniera essere impermeabile alle dinamiche dei tassi di interesse americani.
In effetti la “tigre azteca” è, tra le economie emergenti, una di quelle che sta dimostrando di crescere con maggiore forza e continuità…
La Banca Centrale del Messico ha recentemente confermato i tassi al 3% invariati e ritoccato le previsioni di crescita. Con il Pil atteso nel 2015 in un range del 2-3% e nel 2016 del 2,5 e il 3,5% si può notare come, per ora, la coraggiosa riforma energetica non sia stata prezzata per l’indeterminatezza creata dal repentino calo del petrolio e le necessarie cautele da porsi sul comparto energetico di questi tempi. Anche sulla politica monetaria vince la prudenza e la decisione di attendere le mosse della Fed. Prima di procedere con un eventuale rialzo dei tassi, infatti, non si vuole sacrificare la crescita economica rispetto ad un livello stabile di inflazione a ridosso del 3%, esattamente 2,88% a maggio 2015 su base annua. La reputazione della Banca Centrale quindi si rafforza con previsioni di almeno un punto di rialzo dei tassi gradualmente tra il 2016 e il primo semestre 2017, e supportando le aspettative sul peso messicano ed anche sui titoli governativi. La nota positiva recente, e più rilevante, è legata ai validi effetti scaturiti da una coraggiosa politica di attrazione dei flussi di investimento, che vede nuovi volumi arrivare dall’estero e confluire nel Paese come nel caso dei 2,3 miliardi di dollari attesi da Constellation Group che investirà nell’ampliamento dell’impianto di Coahuila in Messico per la produzione di birra da esportare anche verso gli Usa.
Passando all’Italia, quali sono le prospettive per la ripresa, anche sulla scia dell’attuale posizione di Bruxelles nei confronti di Atene, che non sembra propensa a concedere sconti riguardo all’attuazione del Fiscal Compact?
Il punto fondamentale per l’Italia è quello della stabilità politica, poiché è l’unica via per mantenere gli investimenti nel Paese, per lavorare sullo sviluppo degli stessi, e sull’interscambio commerciale e su tutto ciò che serve a un Paese che sta uscendo da una situazione di stagnazione economica e di sostanziale recessione. L’altro punto fondamentale è quello di dare, e non solo nei confronti degli investitori esteri, un forte segno di continuità. La via è ancora molto stretta e ripida ma certamente abbiamo dei primi dati incoraggianti. Inoltre abbiamo un sostanziale rispetto del deficit e una buona gestione del debito, avendone già rifinanziato più del 75%. C’è ancora molto da fare: per esempio la questione della bad bank e delle banche popolari per il sistema bancario non è cosa da poco. Vista anche la difficoltà di onorare un patto di stabilità molto impegnativo sul quale difficilmente si faranno passi indietro, la strada è ancora in salita. D’altronde sappiamo che il mantenimento di certi obiettivi per quanto estremamente ambiziosi sono necessari per tenere, non solo unita l’Unione Europea, ma soprattutto dare un forte segnale di cambiamento nel passo dell’economia dei Paesi europei. Molte volte Draghi ha sottolineato come ciascun Paese deve fare la sua parte in maniera estremamente proattiva e forte. Il messaggio va ripetuto tante volte perché è necessario ricordarsi che la BCE ha fatto quello che poteva e di più, “What ever it takes”. Ora la mano passa ai governi, ricordandoci che siamo ancora in una situazione di quantitative easing, cioè di benevolenza, e questa è un’occasione che non possiamo mancare…
Dunque in concreto qual è la priorità per il nostro Paese se vuole imboccare un binario virtuoso…
Sicuramente l’aspetto imprese e l’aspetto fiscale sono fondamentali. Questa crisi ha di fatto scremato, detto in senso molto cinico, l’ambito imprenditoriale, permettendo solo a coloro che si sono rivelati più forti in termini di liquidità e di numeri di stare a galla e soprattutto sono state premiate tutte quelle realtà imprenditoriali che hanno avuto la capacità di avere una visione strategica nei confronti dell’internazionalizzazione e dell’export. La crisi ha davvero molto cambiato il tessuto d’impresa in Italia. Non siamo ancora ai livelli tedeschi, con uno zoccolo duro di industrie medio-grandi, il nostro tessuto è da sempre costituito da piccole medie imprese, detto questo soprattutto la media impresa coinvolta in questo processo di intensificazione dei rapporti con l’estero è aumentata notevolmente ed è dunque prioritario metterla in grado di lavorare sia dal punto di vista delle banche con delle valutazioni più puntuali degli sforzi compiuti, sia da parte del governo che deve sostenere il sistema impresa da un punto di vista fiscale per poter lavorare meglio.
Come segretario generale di Assiom Forex ha il polso di quello che è il quadro normativo di riferimento del dopo crisi arrivato con l’introduzione di Basilea 3. Come valuta l’evoluzione di questo quadro normativo e la sua efficacia?
È davvero molto cambiata la richiesta in termini di formazione da parte delle banche associate ad Assiom Forex. Sono membro del Board delle associazioni internazionali di cui Assiom Forex fa parte, e sono nell’associazione dal ’93, mi sono sempre occupata di Formazione e delle sue pubblicazioni. È proprio sulla formazione che c’è stato il grande cambiamento perché da temi di mercato “classici” come il trading e il back office, si è passati a una richiesta sempre crescente relativa all’impatto di Basilea 3, di MiFID 2, delle normative sui derivati e tutto ciò che riguarda l’impianto di regolamentazione che è aumentato esponenzialmente con la crisi finanziaria. Un impianto normativo estremamente costoso per le banche che si riflette nella necessità di dover dare un livello di formazione sempre più puntuale agli operatori del settore. La grossa forza di Assiom Forex è che avvalendosi dei suoi membri associati come docenti e come trainer, porta sempre l’esperienza diretta delle sale operative, delle Tesorerie, delle sale cambi agli altri operatori e quindi c’è uno scambio su una base estremamente tecnico-operativa molto concreta che fa sì che ci sia una grossa rotazione nella partecipazione e un continuo aggiornamento dei programmi dei corsi che rappresenta poi il successo della formazione di Assiom Forex.