A tre giorni dal mancato golpe in Turchia, nell’Unione Europea i mercati finanziari convivono con l’evidenza di una resa dei conti interna che ha preso la piega della mattanza. Tanto da far suonare la campana del rispetto della democrazia, secondo i principi della NATO, al diplomatico Segretario di Stato americano Kerry durante la riunione dei Ministri degli Esteri riuniti lunedì a Bruxelles.
La principale questione oggetto della discussione resta l’accordo sugli immigrati tra Turchia e UE, che da molti analisti viene paventata con il rischio di una vera e propria “bomba umana “, a pesare sulla congiuntura europea già fragile e acciaccata.
A dire il vero i flussi mensili attraverso l’Egeo e verso le isole greche si sono ridotti e quasi annullati da un picco di ben 200 mila entrate lo scorso ottobre. E questa drastica riduzione non c’entra niente con l’accordo tra UE e Turchia, dipende invece dalla decisione dell’Austria e dei Paesi balcanici di chiudere gli accessi bloccando di fatto la “rotta” prediletta dai migranti che nel 2015 ha visto ingenti flussi muoversi attraverso Macedonia, Serbia e Ungheria.
Così in Turchia stazionano ora 2,7 milioni di rifugiati sostanzialmente impossibilitati ad avere accesso all’UE e non si ravvisano tensioni all’orizzonte sul fronte dell’accordo dello scorso marzo che, tra l’altro, dovrebbe portare nelle casse del “Sultano” Erdogan ben 6,8 miliardi di dollari Usa tra il 2016 e il 2018.
Un tesoretto prezioso per un Paese a rischio downgrading con il rischio default peggiorato di circa 30 bp e il rischio fattivo di subire effetti negativi sul deficit di parte corrente a causa di fughe di capitali e di un crollo dei flussi turistici e commerciali.
Le reazioni sui mercati per ora sono molto contenute, l’allargamento degli spread dei titoli governativi è di soli 15 bp mente le obbligazioni delle banche turche hanno perso circa 30 bp. Ma il rischio di un deterioramento creditizio è evidente così come di un incremento dei NPL, i famigerati crediti deteriorati o non performing loans che per ora risultano contenuti al 3,3%.
Del resto, l’aumento della volatilità sulla divisa turca avrà sicuramente un impatto sulle corporates domestiche esposte sul lato dei prestiti perlopiù in divise forti come euro e dollari, esposizione che si è più che triplicata negli ultimi cinque anni.
La cancellazione di molte emissioni attese sul mercato primario da parte di emittenti turchi è l’ovvio esito di una situazione di incertezza che riduce il consenso e l’interesse degli investitori esteri su un mercato che vede le trattazioni esposte ad un rischio politico crescente e imprevedibile, in quanto legato alla figura di un dittatore che negli ultimi due anni ha fatto terra bruciata di opposizione e minoranze e che ha colto l’occasione di questo fallito golpe per avviare una spietata resa dei conti.
L’impasse si estende ora anche ai rapporti sempre più tesi tra Stati Uniti e Turchia e ci si interroga su cosa farà l’AKP dopo aver finito il processo “di neutralizzazione” degli oppositori utilizzando la scusa di essere coinvolti nel golpe.
Intanto i flussi verso gli investimenti sui mercati emergenti continuano a prediligere Russia e Sud Africa, oltre ai mercati asiatici, ma vedranno anche prese di profitto giustificate dal recente rally, non sostenuto da un aumento dei flussi di portafoglio tanto auspicato: prevale infatti un atteggiamento prevalentemente opportunista da parte dei fondi specializzati e cross over.
In aggiunta a tutto ciò, il sogno di Erdogan di diventare uno snodo cruciale del gas tra Russia, Asia Centrale ed Europa rischia di infrangersi sullo strascico degli eccessi di un “ottomanismo” che, con l’appoggio evidente ai Fratelli Mussulmani ora spaventa. Complice l’atteggiamento di un Erdogan che ha spazzato via qualsiasi speranza di un modello di stato islamico moderato e quindi costruttivo per un rinsaldamento della cintura essenziale tra UE E Medio Oriente