Chi come me ha iniziato la sua carriera in finanza a metà degli anni Ottanta ricorderà che, all’epoca, le donne in sala operativa erano viste con diffidenza e c’era addirittura chi riteneva che non portassero bene al business. Alcuni dirigenti di genere maschile, poi, si schermivano tra colloqui di lavoro incentrati sul livello di “istinto materno” e la considerazione che in fondo le donne tra figli e carte di credito mica potevano anche ambire ad una carriera in finanza.
Dopo la laurea, conseguita spesso studiando come si faceva a quei tempi, in un Team dove una donna era l’unica laureata rimaneva la “signorina” mentre i colleghi erano presentati come i “dottori” , cosicché i clienti che chiamavano pensavano che le voci femminili corrispondessero alle segretarie…
Poi c’è stato un momento nel boom degli anni Novanta in cui le donne in finanza hanno potuto uscire dalle collocazioni classiche come uffici studi, middle/back office e ruoli da “sales” (come venditori dalla vocina suadente perché “più gradite ai clienti”) e finalmente approdare a ruoli da trader sia sul mercato secondario e primario dei titoli obbligazionari sia sui desk dei cambi e delle azioni, fino ad arrivare a ruoli operativi e poi manageriali nei Team di debt capital market e Ipo.
Non stiamo poi a raccontare delle difficoltà per una ragazza laureata che avesse accettato di iniziare con un’esperienza di back office come fosse quasi impossibile passare in un ruolo di front office in sala operativa. Il comune denominatore nella finanza italiana fino alla rivoluzione digitale degli anni 2000 e all’avvento delle piattaforme di trading è sempre stato una differenza salariale fra uomini e donne che a parità di esperienza e titoli di studio si aggirava dal 20 al 30%.
I bonus e i premi “di produzione” in Italia non sono mai stati lontanamente paragonabili con quelli delle banche estere, soprattutto anglosassoni, e da qui la migrazione a Londra di molti “talenti”. Certe cifre son sempre state destinate ai manager di alto livello, che al 95% erano uomini, fino all’epoca della crisi globale . Poi, come in tutte le guerre, le inevitabili perdite di risorse hanno lasciato maggiore spazio alle donne, che nella finanza italiana hanno iniziato ad occupare ruoli commisurati alla preparazione e all’esperienza professionale, anche se il retaggio di una certa mentalità che non vedeva di buon occhio le donne “in dolce attesa” in ruoli operativi sino è stato duro a morire.
Quegli anni ci hanno insegnato a fare maggiormente lobby e a creare una catena virtuosa di coinvolgimento nei Team tra donne. Detto questo, non penso che vi siano i presupposti finanziari in Italia per dare spazio a un cinismo femminile come raccontato in “Equity”, un film che vede una giovane regista americana di origine indiana, Meera Menon, cercare un espediente per fare parlare della propria opera. Il film non è paragonabile né a “The Wolf of Wall Street” né a “La grande scommessa”: non c’è humour, né una vera introspezione del personaggio e tutto rimane in superficie.
Poi indubbiamente certe carriere facili fatte di uffici arredati con scrivania in ciliegio e immancabile Ficus Benjamin per meriti e/o amicizie speciali hanno caratterizzato entrambi i generi nelle epoche passate (e fino ai giorni nostri), con condivisione della “colpa originale”. Ma guardando alle statistiche sui grandi scandali finanziari, il cui medagliere è dominato dai trader, permettetemi di rilevare che certi atteggiamenti legati all’avidità, all’ostentazione e all’orgoglio che non accetta di perdere sono più tipici della mentalità maschile, mentre quella femminile è maggiormente legata a un appagamento completo casa/famiglia/lavoro che lascia meno spazio a certi estremi.
Certo, sui riferimenti del film alla difficoltà d’imporsi e di doversi guardare le spalle da colleghi infedeli che per ambizione compiono scorrettezze con maggiore gusto quando è coinvolta una donna, con la complicità di altri uomini, potremmo scrivere un’enciclopedia. Fatti che mai accadrebbero se il capo fosse un uomo, ovviamente, perché nessuno oserebbe metterne indubbio il potere acquisito, ancorché immeritato (vedi al capitolo “venditori di fumo”).
In quest’era post crisi globale che va verso la stagnazione secolare non vedo però molti spazi né opportunità per le nuove leve femminili ed occorre constatare che i recenti casi che connotano il mondo bancario italiano sono forieri di pessimi esempi di un mondo della finanza bancaria legato a generazioni e a modalità di business in cui la discontinuità creata da una presenza femminile forse avrebbe mitigato gli effetti nefasti per le future generazioni.
(Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, ma siamo in molte a poter testimoniare quanto descritto…).