Il primo trimestre di quest’anno si è chiuso con le Borse che brindano alle proposte di Trump e alle rassicurazioni arrivate dalle elezioni olandesi e dalle proiezioni di quelle francesi. Arginate, sembrerebbe, le derive nazionaliste europee e ridimensionate le spinte populiste d’Oltreoceano occorre dire che le Banche Centrali, specialmente la Fed, hanno fatto un ottimo lavoro di comunicazione modificando le politiche monetarie senza colpo ferire.
La probabilità di un rialzo delle Fed a marzo, sino al discorso della Yellen del 14 febbraio, era ferma al 30% ma poi nel giro di 15 giorni si è triplicata senza creare cataclismi sui mercati; infine, nel recente meeting che ha visto effettivamente un rialzo dei tassi, ecco prevalere un ulteriore aggiustamento dei toni tutto legato alle sorti del bilancio della Fed.
All’investitore più accorto non è sfuggito come la Fed sia diventata ostaggio della politica perché se da un lato è evidente che le divisioni nel Partito Repubblicano, che domina su Camera e Senato, stanno rallentando le mire “espansionistiche” di Trump sulla riforma fiscale e sulle infrastrutture, dall’altro lato in Europa tra le elezioni francesi e la Brexit i motivi di nervosismo non mancano. Ne consegue che l’inizio del nuovo trimestre con le borse europee in rallentamento non è evidentemente casuale.
Come si è solito dire le tempistiche dei meccanismi di trasmissione della politica, proprio per le difficoltà che incontra il ritrovare un consenso sulle riforme, sono lunghe, mentre le dinamiche economiche e finanziarie sono decisamente più rapide nel produrre i loro effetti sui mercati perché le uscite dei dati alimentano aspettative e danno una proxy effettiva del ciclo economico impermeabile alle promesse della politica.
Ma quando ai dati macro si aggiungono rischi politici di instabilità o di inabilità governativa accade che i mercati azionari ballino baldanzosi sul filo d’acciaio, senza fare i conti con possibili situazioni avverse.
Come, ad esempio, lo scontro politico in Sudafrica tra il “traballante” presidente Zuma che sta inghiottendo il Paese in una spirale di downgrading evidente, oppure la sopravvalutazione del real brasiliano con una Borsa destinata a ritracciare sotto quota 65000 e l’imminente referendum in una Turchia sempre più blindata dalle aspirazioni egemoniche di Erdogan. A tutto ciò va poi aggiunta la sottovalutazione del peso messicano vittima delle intemperanze a ondate regolari di Trump, più che dalle dinamiche economiche del Paese.
Inutile negare che dal 2016 la variabile politica è entrata nel valore dei credit default swap come nelle quotazioni delle azioni. E’ evidente come su certi emittenti le decisioni politiche valgano più delle scelte monetarie, spingendo a sottovalutare gli inevitabili movimenti delle curve dei tassi, che si ripercuoteranno su quelle dei bond ad alto rendimento e sulle lunghe scadenze in maniera repentina. Un processo che sarà reso più veloce quando si concretizzeranno aspettative di un cambio di marcia della BCE.
Intanto il 6 e 7 aprile Trump incontrerà Xi Jinping in una attesissima visita negli Usa, preceduta dall’anfitrione Tillerson giunto a Pechino in marzo per preparare il terreno. Un incontro sul quale il presidente Usa ha già alzato i toni per la questione nordcoreana e il cui esito si giocherà sul rischio di una guerra valutaria che tutti vorrebbero evitare. Dopo 70 giorni abbastanza scarni di risultati per Trump si prepara una due giorni molto insidiosa, soprattutto dopo lo scivolone diplomatico su Taiwan dello scorso dicembre. Obiettivo principale sarà quello di preservare il bilancio statale senza incorrere in concessioni lontane dai proclami elettorali e senza scatenare una rottura delle relazioni diplomatiche per il “G2” più importante degli ultimi anni.