La perdita nel marzo 2019 del passaporto europeo sui servizi finanziari dell’UK apre l’incognita dei derivati: entro ottobre 2018 bisogna trovare una soluzione che salvaguardi tutte le banche, non solo quelle inglesi.
Come in tutte le separazioni frutto di lunghe trattative, le versioni dell’agognato accordo dell’ultimo minuto sulla Brexit, concluso solo per evitare il peggio e limitare danni economici peggiori per le parti, tendono a essere discordanti. E così come in un “cinepanettone”, senza il quale potevamo anche sopravvivere, le dichiarazioni concilianti del presidente del Parlamento Europeo Tajani sono state in parte smentite dal portavoce di Theresa May, che ha definito le parole attribuite alla Premier “inaccurate” e non pertinenti.
Comunque si voglia interpretare il contenuto dell’accordo dello scorso venerdì, si può dire che l’ipotesi del divorzio del secolo in stile “hard Brexit” è stato scongiurato e che nel summit a Bruxelles del 14-15 dicembre che vedrà a raccolta i leader dell’Unione Europea vi sarà sicuramente una dichiarazione di apertura. Si dirà che i progressi nei colloqui sono ritenuti idonei per aprire il tavolo operativo che definirà i rapporti tra UE e Gran Bretagna e che entro l’ottobre 2018 dovrà sancire il vero e proprio accordo definitivo che dovrà essere ratificato da tutti i Parlamenti dei Paesi , secondo modalità e i propri dettami legislativi , entro il 29 marzo 2019.
L’accordo preliminare quindi fa da buon viatico per la discussione interna al Governo che il primo ministro May ha convocato per il 19 dicembre. La stessa Premier ha invitato i ministri a esprimere le loro idee sulla Brexit per ottenere un consenso allargato al prosieguo dei colloqui, che ora entreranno nel vivo dei temi più tecnici e cruciali della separazione.
Un interessante retroscena riguarda la ben nota questione del confine tra Irlanda del Nord , che resta che rientra nei destini della Brexit, e la Repubblica di Irlanda, saldamente ancorata all’UE da 45 anni. Infatti risulta che la BCE abbia acquistato titoli irlandesi in aggiunta alla quota teorica fissata dalle “capital keys”, così come fece per la Francia e l’Italia in momenti analoghi di tempesta politica , dimostrandosi così sempre attenta al momentum di mercato nel rispetto delle azioni fattibili dal suo mandato. Un altro segno di cosa vuol dire far parte o meno di un mercato unico europeo.
Nei prossimi mesi e sino alla fine di marzo del 2019, quando la Gran Bretagna non sarà più nell’UE,
i diritti acquisiti dei residenti in Gran Bretagna con cittadinanza europea sono tutelati. Lo sono anche i nuovi arrivati, ms sui ricongiungimenti restano le restrizioni simili a quelle previste per i cittadini britannici. La messa in sicurezza poi del bilancio europeo per il 2014-2020 con le garanzie sul congelamento delle quote di contribuzione dei Paesi UE rassicura gli animi, che troveranno anche una modalità di esborso rateale per la separazione che costerà al Regno Unito tra i 45 e i 50 miliardi di euro, in linea con le attese.
Da aprile 2019, con la perdita del voto e delle rappresentanze in seno agli organismi comunitari, la Gran Bretagna inizierà una nuova fase di distacco nella quale non potrà comunque venire meno alle direttive comunitarie e si dovrà definire quale tra le soluzioni già sperimentate (alla norvegese o alla canadese) potrà essere la più calzante o meno. E qui si arriva al nodo della questione che più di tutte potrebbe spostare l’ago della bilancia di questa fase verso una separazione di lungo termine. Se sarà scelto il modello norvegese, gli inglesi dovranno garantire libera circolazione alle persone e saranno liberi di stringere accordi di libero commercio (“FTA”) con l’UE e/o altri Paesi, ma senza potersi più avvalere del passporting sui servizi finanziari.
Il negoziatore UE, Michel Barnier, su questo è stato molto chiaro: l’uscita del marzo 2019 significherà la perdita del “passaporto europeo“ sui servizi finanziari, che rappresentano circa 9 miliardi di sterline inglesi di incassi fiscali annui calcolati dalla British Bankers’ Association per lo Stato britannico. Ancor più duramente Barnier ha precisato: “Il mercato unico è un pacchetto che prevede 4 temi indivisibili: regole uguali, istituzioni, libertà di azione e rafforzamento delle strutture uniche. E la decisione della Gran Bretagna di interrompere la libera circolazione delle persone significa chiaramente che l’UK perderà i benefici del mercato unico”.
L’impatto sull’economia di oltre Manica dal settore finanziario a quello automobilistico inglese si preannuncia pesante, data la già scarsa produttività, come precisato dal Cancelliere dello Scacchiere Hammond, anche se la notizia di una Brexit consensuale ha ridato momentaneamente tono alla sterlina inglese. Un’illusione per molti analisti: perché nel business dei servizi finanziari sono compresi i contratti derivati in euro e in altre valute europee insieme al loro regolamento (clearing). L’eventuale rinegoziazione per le scadenze oltre la Brexit su sistemi e garanzie legali diverse tra quelli anglosassoni rispetto a quelli europei, resta un’incognita enorme per i mercati e per il sistema bancario internazionale, non solo quindi inglese. Perché, come ben dimostrato dalla crisi subprime i sistemi finanziari sono correlati e quindi il danno economico e finanziario di una possibile modifica dei livelli delle garanzie collaterali non varrà solo per le banche inglesi, se entro l’ottobre 2018 non si troverà una soluzione tecnicamente ineccepibile che salvaguardi tutte le banche coinvolte in un giro d’affari valutato superiore ai 500 miliardi di dollari annui.
Già sei mesi fa la BCE era tornata alla carica dopo due anni, aveva lanciato l’allarme richiedendo a Londra di ampliare le proprie competenze di controllo e monitoraggio proprio sul clearing dei derivati, estendibile sino a tutti i servizi finanziari in euro e offerti aldilà del confine dell’UE via passporting, tenendo conto che il 99 % dei contratti repo e interest rate swap in euro è regolato a Londra. Così prima di festeggiare gli spostamenti delle banche e delle clearing houses cullandosi sull’assunto che la London Stock of Exchange è anche proprietaria di Borsa Italiana, e che potremmo così avere una strada spianata per gareggiare con Parigi e Francoforte, forse bisognerebbe interrogarsi sugli effetti sistemici di una modifica che impatta il sistema dei regolamenti internazionali e le stanze di compensazione come mai avvenuto per volumi e istituti finanziari coinvolti.