La completa ratifica della Convenzione di Istanbul è il primo obiettivo per sostenere la parità di genere, ma non basta – Un salto di qualità per l’Italia potrebbe venire dall’applicazione da parte del Patrimonio Destinato della Cdp delle nuove regole fissate dal Nasdaq sulla parità salariale e la rappresentanza di genere.
Non bastasse il riaccendersi del dibattito sulla riforma del Mes a mettere alla prova la tenuta del Governo, gli impegni del G20 sotto la presidenza italiana sono iniziati non proprio sotto i migliori auspici. A cominciare dal passaggio di consegne in Arabia Saudita, fino al crescere delle istanze che chiedono a Giuseppe Conte il rispetto delle promesse fatte mettendo al centro dell’agenda la parità di genere (Goal 5 dell’Agenda 2030 dell’Onu). Ma sull’applicazione della Convenzione di Istanbul come sul Mes la Polonia e l’Ungheria fanno muro e ci si chiede fin dove l’Ue potrà sopportarlo.
CONVENZIONE DI ISTANBUL: DALLA PARTE DELLE DONNE E DEL FUTURO DELL’ITALIA
La Polonia e l’Ungheria non sono una spina nel fianco non solo per l’approvazione della riforma del Mes, ma anche sotto molti altri punti di vista che riguardano il rispetto dei diritti civili e umani. Tanto che il Ppe, il Partito Popolare Europeo, è sempre più vicino a defenestrare il partito di estrema destra di Orban, il premier ungherese. Fidesz era già stato sospeso nel 2019 per la campagna diffamatoria contro l’Ue, e poi son arrivate le leggi che restringono le libertà civili nel Paese in aperta violazione ai Trattati europei.
Inoltre, sempre Polonia e Ungheria recentemente si sono rivoltate contro l’Ue per l’applicazione della Convenzione di Istanbul, uno strumento giuridico potente perché vincolante, che tutela le donne contro qualsiasi forma di violenza e che dovrebbe diventare Direttiva comunitaria una volta raggiunta la ratifica da parte di tutti i Paesi firmatari. La Convenzione nell’art. 3 precisa che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani ed è una forma di discriminazione contro le donne. La norma è stata ripresa e contestualizzata anche dalla Convenzione 190 dell’Ilo, l’Organizzazione Internazionale per il Lavoro delle Nazioni Unite.
L’Italia ha sottoscritto la Convenzione di Istanbul (il cui nome completo è Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica) il 27 settembre 2012 e il Parlamento ha autorizzato la ratifica con la legge n. 77/2013. Per entrare in vigore, la Convenzione necessita della ratifica di almeno 10 Stati, tra i quali 8 membri del Consiglio d’Europa. Ad oggi la Convenzione, siglata da 44 Stati parte del Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea (che l’ha firmata il 13 giugno 2017), è stata ratificata da 33 Stati (Albania, Andorra, Austria, Belgio, Bosnia e Erzegovina, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Italia, Malta, Monaco, Montenegro, Olanda, Polonia, Portogallo, Romania, San Marino, Serbia, Slovenia, Spagna, Svezia, Turchia e Norvegia).
Nel novembre 2019 il Parlamento dell’Unione europea ha adottato una risoluzione, con 500 voti favorevoli, 91 contrari e 50 astensioni, in cui ha invitato il Consiglio europeo a completare la ratifica della Convenzione da parte dell’Unione europea ed esortato i sette Stati membri (Bulgaria, Repubblica ceca, Ungheria, Lituania, Lettonia, Slovacchia, Lettonia, Slovacchia e Regno Unito) sottoscrittori della Convenzione a ratificarla senza indugio. Ma Polonia e Turchia hanno chiesto di ritirarsi unendosi al rifiuto di Russia e Azerbaigian. Nonostante la figlia di Erdogan si fosse schierata in difesa della Convenzione di Istanbul dopo le manifestazioni femministe e contro le pressioni degli ultraconservatori islamisti perché la Turchia si ritirasse dal protocollo, Erdogan non ha cambiato posizione ed ha anzi proposto di reinserire il matrimonio riparatore, un’ipotesi che contraddice i principi sanciti dalla Convenzione.
A maggio il governo di Viktor Orban ha respinto la ratifica della Convenzione rifacendosi alla definizione di genere, dove si distinguono uomini e donne, non più unicamente per le loro differenze biologiche e sessuali, ma anche in base alle categorie socialmente costruite (che assegnano ai due sessi ruoli e comportamenti distinti). Questo è e resta il nodo più controverso.
La Convenzione di Istanbul ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla violenza domestica e ad avviare campagne per aiutare le vittime. Ma ha anche stimolato il dibattito sulla questione nell’Ue per completare l’iter dell’adesione, una delle priorità della nuova strategia di Von der Leyen per l’uguaglianza di genere 2020-2025 della Commissione europea, sancita già il 5 marzo 2020. La Commissione ha mantenuto il suo impegno sull’adesione dell’Ue alla convenzione di Istanbul nel suo programma di lavoro 2021, presentando anche una nuova proposta per combattere la violenza di genere. Tuttavia, anche la visita al Vaticano del presidente dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il belga Rik Daems, per chiedere la ratifica non ha portato ad alcun risultato nonostante il Papa si sia sempre dimostrato molto aperto all’esigenza d’impegnarsi sulla prevenzione e sulla lotta alla violenza contro le donne.
Ci si chiede fino a quando si permetterà a Paesi che violano i Trattati europei ripetutamente di mettere i bastoni tra le ruote all’Ue ostacolando importanti misure come la riforma del Mes ed il Next Generation Fund. Paesi che poi usufruiscono ampiamente dei fondi strutturali europei e non hanno mai finalizzato l’adesione ad Eurozona per mero opportunismo.
IL PASSAGGIO DELLE CONSEGNE DEL G20 ALL’ITALIA IN ARABIA SAUDITA
Al vertice digitale G20 di Riad di fine novembre, i toni concilianti e cordiali stridevano con le aspettative di un cenno per sollevare la questione dei diritti umani, che negli ultimi due anni – dall’omicidio del giornalista Kashoggi all’incarcerazione delle attiviste per i diritti delle donne in Arabia Saudita: Maya al Zahrani, Samar Badawi, Nassima al Sada, Nouf Abdilaziz, e Loujain al Hathloul – ha sollevato dubbi sulla casa regnante. I processi delle attiviste sono fermi da più un anno e molte di loro stanno dimostrando con lo sciopero della fame. Mohammed Bin Salman era stato protagonista alla fine del 2017 di un impeto riformista che comprendeva importanti aperture a favore delle donne, ben accolto dagli ambienti internazionali. Furono eliminate una serie di norme discriminatorie nei confronti delle cittadine saudite che potevano guidare l’auto in autonomia e accedere ai luoghi pubblici (ristoranti, stadi sportivi, etc) con modalità ugualitarie.
Ma il crescendo di complotti per ostacolare l’ascesa del principe ereditario al trono ha distolto la finalizzazione della riforma, che comprendeva queste misure di uguaglianza di genere. Dissidenti e attiviste dei diritti umani hanno pagato a caro prezzo questa fase politica turbolenta, ma ancora una volta, come nel caso della Bielorussa e dell’Azerbaigian, l’Ue non è andata molto aldilà della minaccia di sanzioni.
DALLA PARTE DEI DIRITTI UMANI, DALLA PARTE DELLE DONNE
E mentre l’Amministrazione Biden si insedia con una squadra estremamente inclusiva, che prevede un’ampia presenza femminile, al Nasdaq cambieranno le regole e circa tre quarti delle 3.000 società quotate dovranno adattarsi a nuovi criteri per il rispetto della parità di genere, ma anche delle minoranze sottorappresentate etniche e LGBTQ+, pena il delisting.
È chiaro quindi, visto anche il dibattito internazionale in corso, come per Conte quello della parità di genere, e dell’occupazione femminile diventi più che una sfida una vera scommessa. E nel Paese salgono le tensioni e le richieste pressanti da parte di rappresentanze politiche, associazioni e movimenti impegnati sui diritti. Sembra evidente, infatti, che alle politiche di genere nel piano del “Recovery Fund” sia stato destinato meno di un miliardo e che nella legge di Bilancio siano stati stanziati solo 100 milioni di euro, incrementabili dal 2022 al 2026 di altri 50 milioni, ma sicuramente non sufficienti neanche per raggiungere un primo obiettivo, indicato dalla Task Force Colao, che aveva sollevato l’urgenza di potenziare gli asili nido, portando dal 25 al 60% il livello di copertura dei bisogni effettivi dei genitori per una conciliazione tra famiglia e lavoro.
Ma sul fronte dell’occupazione femminile e della parità salariale, tranne alcune misure inserite nel Family Act, manca una presa di posizione tangibile da parte del Governo. Cresce quindi il timore che, esattamente come a Riad, si possa venire meno all’impegno preso con il G20 e i diritti delle donne (che sono oltre il 50% della popolazione) vengano messi in secondo piano. Forse, se si cominciasse a vincolare il rilascio del Patrimonio Destinato della Cdp, pari a 44 miliardi di euro a sostegno di imprese con fatturato sopra i 50 milioni, alla stretta applicazione degli stessi criteri proposti dal Nasdaq (parità salariale e rappresentanza di genere e minoranze), il Paese si avvicinerebbe a una svolta di vera sostenibilità e rispetto dei diritti umani universali.