Il Venezuela è divenuto l’emblema di tutte le contraddizioni possibili quando tra il governo di un Paese e i suoi mercati finanziari si vivono due realtà parallele e opposte. Da un lato l’impennarsi dei dati di mortalità infantile, la penuria di beni primari, e l’inflazione oltre il 500% configurano un Paese al collasso da tempo, in uno scenario politico arroventato dall’ultima mossa autoritaria di Maduro che ha bloccato la raccolta di firme per il suo impeachment.
Dall’altro lato troviamo i fondi esteri che allettati dalla miglior performance del comparto emergente hanno raccolto con i bond sovrani venezuelani quest’anno fino a un 46% sul picco dei rendimenti.
Di fronte all’ostinazione di Maduro di bloccare le azioni politiche che lo vogliono destituire definitivamente dal potere, la risposta è stata immediata, e il Parlamento che si fa forte di un’opposizione battagliera ha confermato il voto per mettere a processo il dittatore venezuelano, facendo orecchie da mercante al tentativo di mediazione preannunciato dal nunzio apostolico (!). Sì, perché in questo intricato dramma politico e sociale si è inserito anche un incontro tra Maduro e il Papa che ha irritato ulteriormente i rappresentanti dell’opposizione.
Il Governo Maduro invece di far fronte all’emergenza umanitaria e alla mancanza di medicinali e viveri continua a onorare il debito e così vi sono fondi come Fidelity che ha investito il 7% delle quote del suo fondo sui mercati emergenti nel debito venezuelano guadagnando un 16,7% quest’anno. Similarmente anche il fondo di T:Rowe Price ha l’8% delle masse investite nei bond venezuelani e ha ottenuto una performance del 18%. Mentre Franklin Templeton che aveva liquidato la sua esposizione sul Paese ha ottenuto un modesto 1,89%. In totale un terzo dei fondi specializzati sui mercati emergenti analizzati da Morningstar non ha esposizione sul Venezuela.
Guardando ai numeri il Paese latinoamericano ha 15 miliardi di dollari Usa in scadenza a fine 2017, e riserve internazionali per soli 12 miliardi di dollari USA! E con 65 mld di $ di debito, emesso tra titoli governativi e quelli della compagnia petrolifera nazionale PDVSA, pare evidente che un default avrebbe conseguenze negative ampie e diffuse. Per questo i prestiti delle banche cinesi sino ad ora sono stati utilizzati da Maduro per illudere i fondi esteri che il default non ci sarà a spese della popolazione alle prese con un collasso economico e sociale devastante.
L’ultima mossa per prolungare l’agonia del debito venezuelano è stata quella dell’offerta di swap di parte del debito della PDVSA, iniziata a settembre, per spostare la scadenza delle obbligazioni nell’aprile e novembre 2017 sino al 2020, accolta con un 39% di adesioni, rispetto ad un obiettivo del 50%, ma che lascia sempre al 51% la probabilità di default della società stessa entro i prossimi 12 mesi.
In attesa che le case di rating si pronuncino dopo la minaccia di una dichiarazione di criticità delle condizioni finali dello swap comunque non soddisfacenti ad evitare un default, i mercati reagiscono con un incredibile rally dei titoli oggetto del concambio ma anche delle scadenze più lunghe come il 2027 che consolida sopra quota 50 a 54,1.
La parola fine alla trattazione del debito venezuelano non è stata ancora scritta e l’accordo in seno all’OPEC dovrebbe permettere di stabilizzare i prezzi del petrolio sopra i 50 dollari Usa è senz’altro importante. Ma questo non modificherà più di tanto la situazione degli abitanti che dal 2014 vivono una recessione pesante, aggravata dalle decisioni di posticipare le attese elezioni, che avrebbero dovuto cancellare definitivamente la negativa esperienza del successore di Chavez.
Maduro infatti non è mai riuscito a risollevare le sorti di quello che era un hub finanziario importantissimo negli anni ’80, e che sulla carta tra petrolio e industria poteva rappresentare un traino per il Mercosur e non una preoccupante palla al piede.